di Alba Gallo
“Il pane e frittata di mia madre non si batte. Se al pezzo di pane e frittata ci levi mia madre, rimane un banale panino con la frittata, ma se a mia madre levi il pezzo di pane e frittata, resta..mia madre..”. Breve, concisa, ballabile, jazzata: ecco presentata allo spettatore, tanto di Canincattì quanto di Bressanone, la tavola periodica dell’orgoglio lucano. Poche e semplici pennellate, quelle di cui si serve Papaleo in “Basilicata coast to coast”, impregnate d’olio, sì, quello d’oliva, magari, il cui solo suono riporta alle nostre radici. È nostro, è propriamente meridionale, terrone, è un orgoglio che si fregia del riconoscimento di “origine protetta”. Lo stesso orgoglio che impone di salvaguardare la frittata, di pensare al pane e pomodoro (ammesso anche nella variante “frisella”), alla “ciambotta”, a concetti che non si possono spiegare! Non puoi parlarne, sfogliando il dizionario, non con una tavola illustrata. (...continua)
Non puoi spiegare quel che è la Lucania gastronomica. Non puoi se non invitando, per l’appunto, a tavola, il convitato anche della regione accanto. Sono concetti non esportabili, così come farsi spiegare da un emiliano cosa sia lo “gnocco fritto”. Già l’idea della nostra calda e fragrante “pettola”, valicando il confine della provincia di Matera, non trova immediata comprensione. E se ci pensiamo quanto ci vuole a star bene a tavola?
Buona compagnia e pochi e semplici ingredienti: farina, acqua, sale e… spremuta di olive. Ed ecco serviti pane o pizza. 1 euro pro capite di gusto e genuinità. Frittata, invece, vuol dire 4 uova frullate, sale e prezzemolo e con 0.80 euro ecco nutrita una famiglia media. E passa la paura. Bella scoperta, o meglio, bella ri-scoperta! Sì, perché quelle che sono le ricette del risparmio, le casalinghe degli anni Settanta le conoscevano bene. Erano i tempi in cui, tagliando i rubinetti del petrolio, i Paesi esportatori avevano fatto capire quanto fossimo da esso dipendenti. Fu così che nacquero le targhe alterne, che si iniziò a parlare di energie alternative, di fotovoltaico.
E sulle riviste, le donne venivano invitate a cucinare le “ricette del risparmio”, tra tutte le polpette. Il mondo viveva la sua “austerity”. L’Italia iniziò ad adeguarsi. Tornando a noi, “stringere la cinghia”, risulta ancora un tema d’attualità. Ora come allora. E se per loro, quelli di Montecitorio, vuol dire ragionar di tasse e tagli, per il resto del mondo, implica grattacapi – e non pochi - legati a come sbarcare il lunario, tagliando la vacanza o “riducendola ad icona”, sotto forma di fugace “week end fuoriporta”, come gli “Smartbox” insegnano a designarli.
Non so voi, ma quando penso alla crisi, all’esigenza di risparmio, alla morigeratezza economica, mi salta in mente una sola immagine: quella di mia nonna e del suo tavoliere, quel rettangolo di compensato, base per la realizzazione di pasta & co, passando per biscotti, pizze, volano dei desideri con forchetta e coltello. E’ lei, mia nonna, che mi insegna che, prima di dismettere un paio di scarpe, ne possiamo quantomeno recuperare le componenti, che le stesse possono diventare ciabatte, magari.
Divieto di buttare, dunque, congiunto ad una sfavillante fantasia dettata dalla messa al bando dello spreco. Le nonne, patrimonio dell’umanità, giusto mix tra giusto consiglio e innata saggezza, docenti ad honorem di economia domestica. Perché, se il mercato scopre ora i benefici della cenere per rendere il bucato che più bianco non si può, lungo i fiumi, in tempo di guerra, quando le lavatrici suonavano stravaganti come il concetto di “navicella spaziale”, c’era chi lavava lenzuola con soli tre ingredienti: cenere, impegno ed olio di gomito.
Ed erano gli stessi tempi in cui l’idea di inquinamento risultava assimilabile all’uomo nero delle favole, tanto lontano quanto relegato ad una dimensione solo fantastica. Perché, ai tempi, esisteva solo il “vissero felici e contenti” quale degno epilogo di racconti. Il punto interrogativo, beh, quello è tutto merito nostro.