La Basilicata non esiste

di Giovanni Casaletto

La Basilicata non esiste. È inutile girarci intorno. E viene difficile muovere una riflessione fuori dal caos e dai cori che si rincorrono, pur nel tentativo di guardare il prima e l’oggi, pur nella ricerca di una lettura comparata, non esclusiva. Intanto la Basilicata è out; le dimissioni e la fine anticipata della consiliatura regionale, nell’ambiguità delle spiegazioni date, incrociano in via incidentale i fatti di rimborsopoli. Quest’ultima è certo figlia del degrado dello spirito pubblico che attraversiamo, pur concedendo che non è tutto oro ciò che luccica e che il giudizio è un giudizio politico, prima che giudiziario. (...continua) 

Appunto per questo la Basilicata è out, in questo momento non esiste, volendo distorcere Papaleo. Accumula ritardi e penuria economica, accumula rifiuti, i più visibili sono quelli solidi urbani, quelli umani in genere si annidano tra i bottoni e corrono sui giornali. Ma soprattutto non possiede uno spirito pubblico, un’identità culturale che salvi le diversità, quella e quelle che in passato l’hanno resa protagonista di stagioni positive.

Ed è talmente ampio il vuoto tra aspettative e credibilità politica che una nuova minaccia nucleare come quella del 2003 (al netto di valutazioni) lascerebbe il campo scoperto. I lucani sono smarriti in questo momento, quelli più consapevoli perché più increduli sono i migranti, i tanti giovani pendolari, studenti o lavoratori disincantati e ostinati nella sopravvivenza. Uno in ogni famiglia. E dunque le lenti con le quali guardare sono lenti straordinarie, non quelle giornaliere, come se nulla, o forse proprio nulla, fosse accaduto in questi anni ed in questi ultimi mesi.

Il neo-patrimonialismo che si osserva non è certo un fatto nuovo, ma assume dimensione di sistema nelle nuove sfere del trasformismo regionale, di un centrosinistra sfregiato, di un centrodestra incapace anche solo di atteggiarsi ad alternativa e di una protesta che può insidiare il campo, ma poco auspicabile per la sfida che si staglia. L’unificazione degli interessi economici e politici dominanti trova terreno in una combinazione tra sfera pubblica e sfera produttiva assolutamente non competitiva. E può avviarsi a conclusione solo aprendo gli spazi di democrazia e la cessione di potere e di controllo sulla spesa pubblica.

La Basilicata, per citare alcuni ambienti pidiellini di queste ore, o si salva o è finita per sempre. Io credo che sia già finita e che possa solo rigenerarsi.

Dove ci troviamo?

A che punto siamo?

In questi mesi si palesa lo spartiacque tra levismo e olivettismo, contrapponendo una organica società industriosa ed avanzata per superare la depressione letteraria del “Cristo si è fermato ad Eboli”. Chi lo palesa fa bene a porre l’interrogativo, quantomeno a lanciare lo sguardo oltre le miserie nelle quali ci siamo ricacciati, nel tentativo di immaginare una Basilicata laddove non c’è più. Io però credo che il Levismo sia superato da tempo.

E meritoriamente dall’ostinazione della classe politica democristiana del tempo. Ad esso venne sostituito uno spirito costruttivo e mite pure se in una società ancora troppo lenta nei movimenti in avanti, troppo familistica. Ma era uno spirito gravido di un fattore epidemiologico regionale, quasi che i lucani si siano riconosciuti d’istinto. Al punto che la violenza populista dei primi anni ’90 e di Tangentopoli nulla poterono contro il comune senso di responsabilità e di affrancamento dai particolarismi che la comunità regionale volle (pur tra limiti ed omissioni) riconoscere alla comunità politica di centrosinistra.

Oggi non è più così, i partiti non sono partiti ma gruppi, spesso clan familistici e familiari, la rete ha reso la società più impertinente e menomale; le classi politiche sono gli essenziali elementi diffusivi di questo familismo, eccetto che per taluni segmenti trasversali alle eredità democratiche della Prima Repubblica e per una destra sociale, pur fortemente minoritaria in Basilicata; la troppo rapida crescita e l’accumulo di patrimoni privati senza sviluppo e senza la trama di un dibattito politico e culturale di qualità, hanno impoverito complessivamente la regione e spinto il potere fuori da ogni obbligazione morale, fuori dall’interesse generale e nella più totale degenerazione dell’intreccio tra i circuiti, politico e mediatico; infine, in questo contesto, la comunità regionale assomiglia più ad un corpo in formazione che ad un maturo attore nello scacchiere globale, frammentata da interessi e gruppi piuttosto che organicamente diversificata al suo interno.

Occorrerebbe ristabilire una scala di valori e di priorità, riprogrammare la macchina pubblica in ogni singolo comparto, a partire da quelli che non funzionano, e sul punto lascerei libero sfogo all’immaginazione. Un ciclo politico aveva pensato le ragioni di una mano pubblica più mite e, nel travaso da straordinarietà a cicli programmatori comunitari, provato a fare i conti con un’idea di non onnipotenza della politica e con una cultura di governo della complessità oltre la fine della lunga stagione democristiana del modello lucano. Quel ciclo è finito. Quell’autodeterminazione è sepolta, con tutto il centrosinistra.

Col tempo ha preso il sopravvento una cultura narcisistica, figlia di un provincialismo da piccoli principini alle prese con il mondo della diplomazia nobiliare. Il piemontese Cavour, con i giganti della Restaurazione, seppe fare decisamente meglio dei figli dei briganti. La Regione o rinasce o verrà dimenticata. Nell’ambigua stagione politica nazionale e nelle certezze di una crisi che cambia concettualmente ogni approccio pubblico, ben oltre la sua stessa durata, le macroregioni diventano un’ipotesi plausibile.

E rispetto ad esse bisognerà ricostruire un comune sentire addirittura oltre l’orgoglio, oltre l’autodeterminazione, pronto a mescolarsi senza complessi di inferiorità ma senza provincialismo autorappresentativo. E poi ricostruire una funzione dirigente, compiendo uno sforzo di estrazione di blocchi e sistemi vocati al cambiamento, in grado di affrancarsi dalla spesa pubblica e di attrezzarsi, insieme alla pubblica amministrazione, ad attestarsi economicamente dentro nuovi modelli più confacenti alla fase di crisi e di selettività delle politiche che viviamo.

Non metterei al bando Carlo Levi ed Adriano Olivetti, sono due nobili esperienze acquisite. Ma li affiancherei ad altre due figure: il Jacques Maritain del bene comune e del bene onesto; ed infine Ferdinando Magellano, per riassorbire l’obbligo di navigare e di scoprire, con il gusto dell’avventura senza avventurieri, molto strutturati a bordo ma con tanta voglia di navigare verso una Basilicata rinata.

Laddove ogni mediazione è concepibile tra opposte visioni, se ce ne stanno, e non tra gruppi muscolari. E laddove i lucani, in questa fase straordinaria, hanno tre opzioni: la volontà di evitare qualsiasi rottura brutale e la garanzia di una continuità di assetti di potere, a tratti dinastico e familiare; la ricerca di una originale via, tesa alla ripresa del cambiamento e del riformismo, una via a due corsie, corsia di sorpasso per bruciare le tappe del cambiamento, oppure comodamente a destra (non politica) ma badando però di far scendere i passeggeri più sensibili al mal d’auto e pessimi a qualsiasi guida. Infine c’è la reazione radicale.

A tutte innesterei, in extremis, una quinta figura da affiancare a quelle citate: i lucani e la loro regione. Ma solo nel secondo caso le cose combaciano.