di Clara Ripoli
Le dichiarazioni successive alle stizzite reazioni suscitate dalla proposta di legge che prevede l'istituzione di un sussidio economico mensile alle donne che rinuncerebbero ad interrompere la gravidanza, avanzate a diverso titolo da alcuni consiglieri regionali, rischiano di essere peggiori della stessa proposta e di accrescere la distanza siderale esistente tra la sensibilità e il senso di responsabilità delle donne e un ceto politico asfittico e sterile, non in grado di prevedere l'impatto sociale e politico delle proprie iniziative. (...continua)
Preliminarmente, ciò che colpisce è il maldestro e cinico (come sempre) tentativo di spostare sul metodo (parliamone, confrontiamoci, apriamo un dibattito, magari una bella stagione di convegnistica regionale, perché no?) una questione di sostanza che colpisce al cuore il principio di autodeterminazione e la dignità delle donne. Le donne, in quanto soggetto, non possono vedersi opporsi, di fronte al tema della sessualità, della procreazione e maternità una qual si voglia contrattazione sulle decisioni e le scelte di cui eticamente dispongono, proprio perché soggetti in grado di decidere ed autodeterminarsi.
Se si svela il finto buonismo di chi invita ad aprire la discussione, invece di invitare a chiuderla definitivamente come il buon senso vorrebbe, respingendo al mittente la proposta di legge perché sbagliata, invitando i presentatori a ritirarla, appare chiaro che se si fosse voluto aprire un dibattito sulla maternità e sullo stato di attuazione della legge 194 in Basilicata si doveva farlo prima della presentazione di una simile proposta, coinvolgendo in primis le donne, le organizzazioni e associazioni che storicamente hanno difeso e difendono l'affermazione dei diritti delle donne, pur con diverse convinzioni, senza escludere nessuno, non certo dopo averla presentata.
Ed è altrettanto evidente che il dibattito auspicato avrebbe dovuto riguardare il tema della genitorialità responsabile, prima ancora che quello della maternità. Non le crociate sull'aborto. Ogni donna che come me stima le donne e la loro capacità di giudizio sa bene che se questo iter fosse stato intrapreso e loro avessero preso la parola questa proposta non ci sarebbe stata.
Ce ne sarebbe stata un'altra o più di una, di diversa ispirazione culturale e politica, ma questa no. Semplicemente perché la monetizzazione, è questo il nocciolo della questione, intesa come strumento di sostegno alla maternità, è una misura moralmente inaccettabile per tutte le donne poiché offende la loro dignità e la stessa libertà di scelta, ai quali orizzonti può opporsi unicamente la sola coscienza delle donne stesse. Giuste o sbagliate che siano le loro decisioni. Piaccia o non piaccia. Non esiste un'alternativa a questa condizione se non che altri decidano al posto delle donne, in questa come in tutte le altre sfere della loro soggettività. Ma, soprattutto, se la strada maestra della politica e dell'ascolto fossero state intraprese, le istituzioni, i partiti, gli stessi proponenti sarebbero stati in sintonia con i sentimenti e il senso comune dei soggetti reali della relazione politica, dei loro bisogni e progetti. In questo caso le donne e il loro progetto di vita avrebbero vinto sulla falsa rappresentazione dei loro bisogni "avocata a sé per procura" da un Consiglio Regionale che burocraticamente si arroga il diritto di parlare e decidere in nome e per conto delle donne.
È solo la punta di un iceberg; se si comprende emergono ai fini di questa discussione due aspetti importanti: da una parte la crisi profonda della politica regionale, lontana dal bisogno radicale di cambiamento dei cittadini lucani e dalla vita delle persone. Crisi che ha già avuto modo di esprimersi drammaticamente e grandemente con l'astensione dal voto della maggioranza dei cittadini lucani in occasione delle elezioni del Consiglio Regionale. L' altro aspetto attiene alla funzione che noi donne lucane intendiamo assegnare alla nostra forza di modernizzazione senza riserve, con la quale ogni giorno trasformiamo, migliorandola, la società lucana, senza riceverne il riconoscimento e l'aiuto necessari. In Basilicata più che altrove, come denunciano tutte le ricerche nazionali.
A chi decidiamo di delegarla nei luoghi della decisione? E per farne cosa? Non è forse finito il tempo di un modello di partecipazione politica femminile che sconfigge le donne estraniandole dalle istituzioni e le costringe più che mai a perdere le battaglie per l'affermazione di quello che veniva definito il "principio del riequilibrio della rappresentanza di genere" , mentre studiano, vincono la sfida della competizione del merito, assistono, fanno i figli che possono e decidono di avere, mandano avanti con la loro fatica la baracca? Occorre avere il coraggio riconoscere il fallimento di un modello partecipativo fatto di commissioni per la parità e pari opportunità, conferenze delle donne, territoriali e non, a tutti i livelli che finiscono per ripetere compulsivamente giaculatorie ottocentesche, improduttive se, come il caso di specie ci dimostra, il risultato è che nessuna donna siede in Consiglio regionale.
Al netto delle energie spese il saldo non rende giustizia: le donne perdono sempre ma vincono da sole, appaiono deboli e soccombenti, mentre la loro forza è viva e propulsiva. Se la metà dei componenti del Consiglio regionale di Basilicata fossero donne, discuteremmo di questa proposta di legge e dei contenuti ad essa connessi? Se la metà dei segretari regionali dei partiti fossero donne avremmo avuto quelle liste e quei listini? E i due sessi sarebbero stati rappresentati in quelle misure e in quell'ordine? Io credo proprio di no. Avere il coraggio di cambiare il modo di fare politica delle donne nel segno dell'innovazione e dell'autonomia per spostare i partiti e le istituzioni più avanti. Mettere in gioco noi stesse, senza sconti o vecchi armamentari di parata: la battaglia tra la conservazione e il progresso non si può imbrigliare nelle mozioni, le cordate, i riformismi burocratico-generazionali senza dialogo tra cuore e cervello, scollegati dai sentimenti popolari e democratici, ma deve esplicitarsi sulle idee, sui contenuti chiari e sugli orizzonti definiti di un cambiamento possibile, anche in Basilicata.
Su questo ci si deve confrontare e misurare a viso aperto: si vince o si perde, si conquistano le medaglie di innovatori e si va avanti, oppure di conservatori e si resta indietro. Altrimenti è la storia di sempre, la selezione delle classi dirigenti ammantate da categorie mistiche come la fedeltà, il rinnovamento, la rottamazione, scatole vuote agite come falci per saldare i conti e perdere ancora una volta il treno dell'innovazione.
Le donne non possono più stare da questa parte. Né essere identificate come quelle che trovano riparo in quelle nicchie. Devono fare delle scelte. Cambiare tutti/e quindi rimane l'unica strada percorribile per ricominciare a sperare che il tempo delle crociate sulla pelle delle donne sia definitivamente archiviato, nonostante gli anacronistici sussulti di queste ore, perché la politica in Basilicata è in grado di riprendere la parola e la sfida del cambiamento, perché il riformismo è possibile.