di Michele Masulli
Nel 1970, Albert Hirschman dava alle stampe un agile trattato, dove spiegava quali reazioni un membro di un’organizzazione possa esprimere nei momenti di declino della comunità a cui appartiene. Se lo schema delineato dall’illustre economista tedesco, applicabile in più settori della vita pubblica, in primis nell’ambito delle scelte di mercato, viene adottato in relazione ai meccanismi di rappresentanza politica e istituzionale, è possibile dedurre che il cittadino, davanti alla crisi del proprio Stato, possa assumere tre tipi di attitudini: la prima è quella di chi, condividendo profondamente i valori e i fini della comunità, pur non apprezzandone la conduzione corrente, esprime un atteggiamento di lealtà e cooperazione; la seconda è propria, invece, di colui che, nonostante dissenta dal governo dello Stato, decide di utilizzare i canali esistenti per protestare e provare ad incidere sulle scelte pubbliche; infine, c’è chi, in grave dissenso, preferisce farsi carico della decisione più drastica: abbandonare la comunità. (continua...)
È difficile che non salga alla mente questa terza radicale opzione notando l’evidente aggravarsi del fenomeno di astensione dal voto in Italia, in ultimo nelle elezioni amministrative del 26 e 27 maggio, quando ha votato il 62,38% degli aventi diritto al voto, rispetto 78,84% del precedente turno di amministrative. Infatti, se il successo del MoVimento 5 Stelle alle scorse elezioni politiche può essere interpretato, in larga parte, come l’espressione più eclatante di un sentimento acceso di protesta, delusione, rabbia, estesi in larga parte della società italiana, il crollo dell’affluenza alle urne rappresenta un drammatico campanello d’allarme: rende palese, cioè, che la sfiducia nei confronti delle Istituzioni raggiunge punte talmente elevate da delineare una secessione consapevole e disincantata dall’alveo della cittadinanza di parte consistente del popolo italiano, di “defezione”, per tornare ad Hirschman, dalla comunità.
Un’uscita che, per i più, non è seguita dal trasferimento in una comunità più rispondente alle proprie aspettative, ma al contrario risulta semplicemente e dolorosamente una rinuncia ad esprimere le proprie opinioni sulla conduzione dello Stato, motivata dalla convinzione dell’inutilità di ogni atto politico, compiuto individualmente o per tramite dei corpi intermedi che dell’organizzazione della vita pubblica fanno la loro ragion d’essere.
Ed è ancora più rilevante il dato che il crollo dell’affluenza al voto si registri in competizioni amministrative, che, sia per il sistema elettorale che prevede l’elezione diretta del Sindaco, sia per la prossimità della politica ai cittadini, sia per le nuove competenze affidate ai Comuni con la riforma dello Stato in senso federale, dovrebbero pure stimolare la partecipazione politica. Sono lontani gli anni ’70, quando ancora più del 90% degli italiani si recava disciplinatamente alle urne per esprimere la propria preferenza; tempi in cui tutto il corpo sociale, dalle università al mondo del lavoro alle associazioni, era innervato da impulsi politici: complice un ciclo economico di crescita sostenuta, il primato della politica regalava agli italiani la speranza di poter migliorare le proprie condizioni materiali attraverso l’iniziativa collettiva.
L’elettore si rivedeva stabilmente in un partito politico: l’indice di “disallineamento” tra votante e partito si è mantenuto molto basso per tutta la Prima Repubblica: la somma delle differenze, in valore assoluto, tra le percentuali registrate in una data elezione rispetto alla precedente per un ogni partito era pari al 7%. Il cittadino, prima ancora che un programma, sosteneva un simbolo, una narrazione, una classe dirigente, una visione della società e del mondo. Lo stesso indicatore di fluttuazione del voto, poco prima delle politiche del 2013, era schizzato al 33,2%.
Parte importante del corpo elettorale era “sul mercato”: non aveva garantito a nessun soggetto politico la propria adesione ed era in cerca della proposta che più si confacesse alle proprie attese; nel caso non avesse trovato nessun offerta politica adeguata, nei giorni del voto sarebbe serenamente restata a casa. La mobilità elettorale e il disfarsi di blocchi sociali consolidati sono elementi, da vivere come un naturale portato dei tempi e non con lo spirito del laudator temporis acti, tra i più evidenti nell’attuale contesto politico e con cui bisogna confrontarsi apertamente.
Sta ai soggetti attualmente in campo, perciò, attrezzarsi per intercettare un elettorato sempre più fluido, in quanto lo zoccolo duro dei propri sostenitori non solo non basta più, ma si va sempre più restringendo. Ed in questa direzione, lo sforzo di riassorbire la sacca dell’astensione diventa non solo un avvincente competizione politica, ma soprattutto un’emergenza democratica: nella carenza di rappresentatività della politica si apre lo spazio per i populismi; nell’incapacità di dare risposte all’esigenze del cittadino, si spandono i germi dell’estremismo; nell’offuscarsi di ogni prospettiva di realizzazione personale, si spezzano i legami di solidarietà; nell’ampliarsi delle disuguaglianze, nella svalutazione del lavoro e della dignità della persona, si indebolisce la coesione sociale e si minano le fondamenta della democrazia.
Un partito che voglia tentare di abbracciare questa sfida non può prescindere da due imperativi: è necessario reinventare le forme dell’organizzazione interna, della militanza e della comunicazione e riacquistare alla politica le leve necessarie per incidere nella vita delle persone, allentare la morsa dei problemi che ne segnano la carne viva e restituire una visione di speranza. Un impegno, questo, che richiede un’iniziativa politica a livelli di elaborazione tra i più alti.