di Giovanni Casaletto
L’Italia si è fatta annodando ciò che era sciolto, legando i fili di un Paese enfaticamente costruito solo nella testa di qualche intellettuale o poeta, di qualche medico o figlio di medico, di pochi borghesi e circoli di pensatori. Che pure sono importanti, specie se non ne stanno più. È costata l’Italia, sangue e fatica, qualche inganno, molti intrighi. Sciocche servitù ai potenti d’Europa, capovolgimenti di fronte e chincaglierie da cortigiani. Ma alla fine si è fatta, pur senza gli italiani o comunque non con tutti. (...continua)
Ché tutti non c’erano, forse solo una parte. Si è fatto tesoro della precedente stagione rivoluzionaria francese, si è imposto un regime costituzionale e monarchico basato sulla stretta rispondenza al potere centrale, un paradigma di governo verticale centrato su Ministeri, su Prefetti ed uffici periferici. Si è anche esagerato, a mio avviso, contro i terroni e contro i briganti: non tutti borbonici, non tutti briganti, e non tutti (briganti compresi) animati dalle peggiori intenzioni neanche se borbonici.
E questo i piemontesi lo sapevano, eccome. Così si è fatta e poi è dovuta diventare adulta. E conoscendo anch’essa le bellezze della società di massa, ha dovuto confrontarsi con nuovi e differenti centri di potere, con i sindacati, con i partiti, allargando le maglie della partecipazione in uno Stato che ne difettava, potere di notabili. E di quanto ci fosse bisogno di uno Stato plurale se ne sono accorti davvero tanti. Anche Mussolini, piuttosto nell’accezione di Stato molteplice, con tecnici e specialisti in grado di affrontare i diversi ambiti di gestione; sulla prima accezione, per brevità, non mi soffermo e rifuggo ogni appunto di compiacenza. Molti bravi burocrati e grand commis di Stato sono usciti da lì e dal precedente filone Nittiano. La Repubblica ha insediato i partiti nella Costituzione e lo Stato è divenuto a poco a poco Stato Costituzionale, non più solo amministrativo, poiché le leggi non hanno solo valore coercitivo e ordinamentale, ma sono assunte come il prodotto della pluralità, della lotta politica, delle idee e dei sedimenti culturali che formano una nazione.
Anche qui s’è fatta tanta fatica, ma per stare insieme ed unire nella diversità. Pluralismo. Poi succede che i partiti hanno esagerato, sono diventati essi stessi fonte di legittimità costituzionale, hanno occupato ogni scampolo di autonomia, e non lo diciamo per compiacenza ad Enrico Berlinguer. Nella crisi della rappresentanza, che è comunque crisi globale della democrazia e non va letta separatamente, si sono riaperti i cantieri del dialogo e delle riforme, per correggere quanto si era increspato, per riacciuffare autonomia laddove c’era partitocrazia, per rendere più confacente ad un moderno Stato costituzionale dei diritti la stessa democrazia dei partiti.
I cantieri sono stati tanti a partire dalla fine degli ’80. Forse il più compiuto (perché ha inteso mettere intorno al tavolo della massima espressione della rappresentanza popolare, il Parlamento, tutti i diversi e anche di più) è stata la tanto volgarmente bistrattata Bicamerale sul finire dei ’90. Siamo ancora a quel punto? Evidentemente c’era bisogno di cambiare alcune cosette. E non mi soffermo neppure sulla simbologia da fast food che impera nei Tg, tra panini sponsorizzati e Lazzari pregiudicati che riaffiorano al Nazareno (sto ai fatti e non alla polemica, si badi!), nella attuale sede del maggior partito della sinistra italiana.
Non critico a priori, e soprattutto non credo alle crociate da legge elettorale. Personalmente convinto da quasi un decennio che per l’Italia sarebbe auspicabile un doppio turno di collegio che oggi riattiverebbe un minimo di dialettica post-nomination da lista bloccata, non penso che le leggi fanno la democrazia politica, o che ne sta una assoluta e migliore delle altre; in questo campo non va così e la storia delle similitudini e delle diverse democrazie europee lo dimostra. Tuttavia noto, con una certa punta di sconcerto, che nel frattempo viviamo un’orgia di pulsioni prepolitiche piene di incoerenza e di falsità: ci voleva sto disastro per rilegittimare il condannato politico (fatti, insisto) non a rifondare la democrazia su basi nuove ma a rinsaldare o fare ex-novo un patto di potere con un Porcellum abbellito?
Con chi lo ha fatto il Porcellum e se ne è giovato? E soprattutto picconando oltremodo ogni palestra di democrazia, dietro la sondaggistica e populistica scusa dei costi della politica? E dunque il risultato: via le Province, via il Senato, via la democrazia; “venghino” Signori nelle liste dei capi carismatici! Vediamo che succede in questo Risorgimento catodico, certo. Enfatizzo per stressare il dibattito, un dibattito ormai ridotto a tifoserie e confusione da Italietta a caccia di visibilità.
Mi permetto: in quell’orgia di cui sopra non sono la stessa cosa sistema elettorale, rappresentanza, pluralismo e paroloni abusati come “spending review”, “sburocratizzare”, “open data”, “rivoluzioni civili e democratiche” e cavolate dicendo tanto al chilo. Vediamo che succede, certo. Ma se questo è un imbroglio, non nel mio nome. Preferisco vivere e dissentire, preferisco scindere ciò che non sta insieme e salvare ancora un’idea di democrazia più sana. Ed a mio figlio dirò sempre: studia e vai a fondo, interpreta e non aderire mai a nessun pensiero unico. Che di lestofanti si muore e qui non si fa l’Italia.