I 100 anni del PCI e le sue radici lucane

di Michele Fasanella

In genere la principale insidia nascosta negli anniversari è quella di trasformare le ricorrenze in un’accesa diatriba tra opposte fazioni, riducendo la riflessione critica a uno scontro tra sostenitori e denigratori a prescindere, sminuendo il valore della ricerca storiografica e, al contempo, quello simbolico della memoria.


Anche il centenario della nascita del Partito Comunista d’Italia sta correndo il medesimo rischio, con la storia del PCI ormai oggetto di polemiche e storture interpretative che hanno poco a che vedere con l’analisi delle fonti archivistiche. Basterebbe infatti avvicinarsi ai nuovi documenti disponibili per accorgersi come alcune chiavi di lettura, su tutte quella della cosiddetta “doppiezza” del PCI, siano ormai superate e legate a un vecchio paradigma ideologico che non tiene conto della complessità degli equilibri internazionali durante la Guerra fredda e dell’importanza del lavoro di costruzione democratica dal basso di cui proprio il PCI fu protagonista in Italia a partire dal 1943-44 insieme agli altri partiti e alla Dc e al PSI in particolare.
La redazione della Carta Costituzionale certifica la partecipazione del PCI alla nascita della Repubblica italiana e alla difesa dei suoi valori democratici, così come la recente ricostruzione delle storie e delle biografie dei dirigenti e dei militanti comunisti su scala locale restituisce il senso più alto di quell’appartenenza politica, che fu anche coscienza civile, impegno culturale e scelta di vita. Non mancarono certamente zone d’ombra, errori di valutazione politica e momenti drammatici (come nel caso dell’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956), ma ridurre l’esperienza del PCI a un insieme di scelte eterodirette dall’URSS o condizionate da logiche eversive significa ignorare colpevolmente il ruolo che il Partito ebbe, attraverso le sue molteplici ramificazioni territoriali, nel rafforzamento della “democrazia dei partiti”, attività già avviata, per alcuni aspetti, con l’opposizione al regime fascista.
Tra i rappresentanti della Basilicata ai lavori del XVII Congresso del Partito Socialista Italiano tenutosi al Teatro Goldoni di Livorno dal 15 al 21 gennaio 1921, per esempio, ci fu anche l’allora Segretario della Camera del Lavoro di Potenza, Enrico von Hoenning O’Carrol. Giunto in Lucania da Milano nella seconda metà del 1920, Hoenning aveva svolto un’intensa opera di propaganda, aderendo alla frazione comunista. A Livorno appoggiò la scissione e partecipò alla fondazione del Partito Comunista d’Italia. Rientrato a Potenza, continuò il proprio impegno sindacale in un clima politico-sociale sempre più segnato da tensioni, proteste e disordini, subendo le prime minacce squadristiche a Matera il 13 febbraio. Cinque giorni dopo, invece, attaccato a colpi di bastone da un gruppo di fascisti di Ferrandina, riportò lesioni alla testa e al viso e fu costretto a tornare definitivamente a Milano, lasciando idealmente il testimone a Michele Mancino, bracciante di origini genzanesi che, tra la primavera del 1921 e il 1924, su indicazione di Amadeo Bordiga, lavorò alla difficile costituzione della Federazione provinciale del Partito Comunista d’Italia. Condannato nel 1928 dal Tribunale speciale fascista a otto anni di reclusione, a due di massima sorveglianza e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, Mancino fu, insieme a Michele Bianco, tra i principali organizzatori del PCI in Basilicata nell’immediato secondo dopoguerra.
PCI che, come ha scritto acutamente Nino Calice, lavorò negli anni successivi alla diffusione «pratica e teorica dei valori di giustizia, libertà e solidarietà» attraverso un percorso non privo di contraddizioni e di sconfitte, ma certamente teso a rendere centrale la partecipazione delle masse alla vita democratica.

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(«La Nuova del Sud», 22 gennaio 2021)